Storie di fiori

Le mimose

L’8 marzo, finalmente. Quest’anno l’aveva aspettato più di tutti gli altri anni, perché questo 8 marzo era speciale.
Nell’ultimo mese la sua vita era completamente cambiata e lei voleva festeggiare. Quest’anno avrebbe indossato il suo rametto di mimosa con orgoglio, perché finalmente era libera.
Era riuscita ad andare via da casa, si era trovata un piccolo appartamentino che fosse all’altezza del suo nuovo stipendio: praticamente un monolocale, ma per lei era una reggia. Non era stato più possibile continuare a vivere con i suoi.

Suo padre la odiava. Non che glielo avesse detto, non le rivolgeva mai la parola, ma lei lo sentiva; quando era costretto a stare seduto vicino a lei a tavola, cercava sempre di non guardarla e la televisione era un’ottima scusa per girare la testa dall’altra parte. Sua madre non la odiava, perché le madri non odiano mai i figli, però piangeva di continuo, e lei non era mai riuscita a dirle nulla. Del resto cosa avrebbe potuto dirle, come avrebbe potuto spiegarle quello che non capiva nemmeno lei?
Meglio andarsene ed evitare sofferenze per tutti. Nell’ultimo mese aveva anche cambiato lavoro, dopo che il suo vecchio capo le aveva rinfacciato che gli faceva perdere clienti. Era uno all’antica, tale quale suo padre: si vergognava di tenerla in negozio, e nel retrobottega non c’era abbastanza lavoro da giustificare il suo stipendio.
Per fortuna aveva trovato un nuovo datore di lavoro, una persona per bene, o almeno così sembrava.
«Vivi e lascia vivere – diceva sempre – Per me la gente dovrebbe essere libera di fare quello che vuole, a patto di non far male a nessuno.» Una filosofia semplice, se tutti la adottassero si vivrebbe molto meglio.
Si guardò allo specchio e sistemò il rametto di mimosa nella cerniera del giubbotto, in modo che fosse ben visibile. Ogni giorno si ripeteva che era una bella persona, anche se i suoi genitori non la pensavano così, anche se aveva perso pian piano tutti i suoi amici.
Non ne era rimasto nessuno: gli uomini non si volevano far vedere in sua compagnia perché era imbarazzante, e le donne non riuscivano proprio ad accettarla.
Per questo era andata via dal quartiere, era stanca che la gente la guardasse come un puzzle che non si ha nessuna voglia di comporre, stanca di sentir bisbigliare alle sue spalle quando camminava per strada.
Vita nuova, dunque. Nuova casa, nuovo lavoro, nuovo quartiere, e chissà magari presto nuovi amici. Non si faceva grandi illusioni, però, perché le persone come lei non si aspettano mai il lieto fine.
Anche il nome aveva cambiato. Non più quello che avevano scelto i suoi genitori, ma un nome nuovo, che fosse tutto suo, che rispecchiasse quello che era, non quello che gli altri volevano che fosse. Ci aveva pensato bene, non è cosa da poco scegliersi un nome. Lo aveva scelto con cura, l’aveva registrato anche all’anagrafe e ne era orgogliosa.
E ora le piaceva tantissimo sentirsi chiamare Mimosa, le piaceva il suo suono e l’immagine che dava di lei.
C’era una sola cosa che ancora la faceva soffrire: sapeva benissimo che per suo padre, purtroppo, lei sarebbe rimasta sempre e soltanto Adriano.

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50 risposte a "Le mimose"

  1. Bellissima. Pubblicare un testo così proprio durante la Giornata dei Diritti della Donna, poi, gli fa assumere un significato ancora più forte! Come gli altri componimenti di questa raccolta, in poche parole il lettore si è ritrovato immerso nell’atmosfera, nella vita, nell’essenza del personaggio. La leggiadra forza, l’entusiasmo screziato di malinconia di Mimosa sembra un vero inno alla femminilità, ed alla lotta per la libertà. Un testo davvero bello, complimenti!

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  2. Un bel racconto, che in effetti fa pensare.

    La propria identità sessuale talvolta non corrisponde a quella dataci in dono da madre natura. Che fare?

    Gli stereotipi non sono estirpabili, poche persone sono in grado di accettare in sé stesse e negli altri le crisi di identità, le crisi di genere, la transessualità.
    E chi le vive in prima persona troverà molti ostacoli nella propria vita, inutile negarlo.

    Ma reprimere sé stessi sarebbe peggio, no?

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